Intervento dell'Assessore regionale Andrea Cozzolino sul Patto Campano per la famiglia in occasione del convegno di S.Giorgio a Cremano.

Il patto fra le generazioni si è rotto. Ciò che nel Novecento – in sostanza, fino alla soglia degli anni Settanta – legava genitori e figli, vecchie e nuove generazioni, i padri ai giovani e giovanissimi, non esiste più.
E adesso tocca interrogarsi, spiegare, capire che cosa ha preso il suo posto.
Sono cambiati i fondamentali su cui si è costruito nel secolo scorso il patto generazionale. Quelli economici come quelli sociali, culturali e, direi, persino demografici. Con il nuovo secolo – ha scritto Aldo Bonomi - siamo passati tutti “da una società dei mezzi scarsi, ma dei fini certi, a una società dai mezzi abbondanti ma dai fini incerti”.
Tutto ciò non senza conseguenze. Anzitutto sul senso di precarietà che prevale nella società, e colpisce specialmente giovani e anziani. E’ paradossale che in una società opulenta sia sempre più prevalente la sensazione, per dirla con Ungaretti, di “stare come d’autunno sugli alberi le foglie”. La società opulenta è al tempo stesso una “società dell’incertezza”. Ognuno si sente a rischio di diventare “coriandolo”, pezzetto di carta esposto a ogni refolo di vento.
Possibile che l’estensione senza precedenti delle facoltà umane attraverso l’esplosione del mercato globale e la moltiplicazione degli strumenti di connessione e comunicazione abbia portato al paradosso di accentuare, invece che diminuire, il senso di anomia, cioè la percezione dell’asimmetria tra le aspettative degli individui e la realtà vissuta?
Che cosa è successo? Com’è potuto accadere?
E’ successo che i luoghi di socializzazione sono arretrati sul fondale del vissuto delle persone. Sezioni di partito, parrocchie, famiglie, il lavorare assieme: erano tutti luoghi che abbassavano l’anomia e producevano socializzazione.
E’ come se la nostra antropologia abbia svoltato, imboccando una sorta di involuzione genetica. La gente si è lentamente abituata a fare a meno di socializzare. Nella crisi si sono fatte avanti nuove sottoculture. L’individualismo proprietario fondato sulla ostentazione dell’agiatezza e dell’opulenza. Un diffuso rancore territoriale che mette le città contro le città (lo abbiamo visto in occasione della emergenza rifiuti), si manifesta nell’avversione allo straniero immigrato e si protende anche sulle classi e i gruppi della medesima dimensione urbana (centro contro periferia) di cui il leghismo è stato interprete. Ciò che resta dell’identità di classe che ha segnato così a fondo la storia del Novecento è stato recluso come in una riserva indiana: la classe operaia (quel che ne resta) impegnata nella pallida difesa del diritto alla conservazione della vita sui luoghi di lavoro.

BISOGNO DI COMUNITA’
Io credo che la politica da oggi in poi sia chiamata a capire questo umori di fondo. Scommettere sul fatto che la società italiana non è rassegnata al destino di coriandolo o di foglia sul punto di cadere dal ramo. Scommettere sul bisogno di comunità, che precede e fornisce linfa a una dimensione più grande e più importante del “fare società”. Mi pare sia indubitabile che una dimensione dell’essere molto profonda - che chiede, che interroga, che pressa – esiga di essere presa in considerazione al di là della pur legittima domanda di sicurezza.
Globalizzazione e nuove tecnologie non hanno rivoluzionato solo gli assetti economici e produttivi, ma anche acuito le pressioni competitive mettendo sotto stress - le imprese in quanto tali e gli uomini che vi operano - destabilizzando il valore-lavoro.
Sono cambiati i modelli sociali e di vita. Sul lavoro come nella famiglia. La giovinezza si è allungata, è diventata più ricca e insieme più incerta. La vita del lavoro adulto non è più predeterminata nei suoi contenuti come nella società dei mezzi scarsi e dei fini certi. Oggi è potenzialmente più estesa. Ma solo potenzialmente. Perché invece, di fatto, spesso risulta colpita da espulsioni precoci dall’attività produttiva.
I progressi della medicina hanno aggiunto molti anni alla vecchiaia “attiva”, che però resta da riempire.

FINE DEL WELFARE RISARCITORIO
La famiglia tradizionale che teneva insieme il patto fra generazioni non c’è più. Si è scomposta, perché si sono individualizzati e diversificati i rapporti anche fra i suoi componenti.
Il “patto del Novecento” era basato su forti solidarietà sociali e ideali, sul lavoro stabile del maschio capofamiglia, sul welfare “risarcitorio” centrato anche esso sul capofamiglia. Si interveniva ad assisterlo per i bisogni più gravi: infortuni, malattie, pensioni di vecchiaia.
Questi fondamenti si sono incrinati. Si sono alterati i contenuti di solidarietà squilibrando le condizioni di vita delle persone e delle famiglie.
I giovani hanno perso molte prerogative della giovinezza, che non è più il tempo di un ottimismo spensierato.
Vedono peggiorare il loro status personale per colpa della precarietà, del reddito e del lavoro, per una dipendenza prolungata dai genitori, per l’incertezza delle prospettive di entrata nella vita adulta, per il rischio di pensioni future insufficienti.
La famiglia è affaticata. Spesso dilaniata dalle tensioni fra gli obblighi di lavoro e di cura, che le vengono scaricati addosso come una croce a causa dell’insufficienza del welfare pubblico.
Calo della natalità, povertà diffusa, specie nelle famiglie mononucleari, fatica di vivere, sfaldarsi dei nuclei e dei rapporti ne sono gli effetti sociali più evidenti. Ma non gli unici.

INCERTEZZA E PRECARIETA’
Incertezza e precarietà si sono diffuse diventando elementi costitutivi del nostro orizzonte: toccano direttamente i giovani, ma preoccupano genitori e anziani.
Per ricostruire i valori di solidarietà e di stabilità propri del patto generazionale occorre ricercare contenuti che diano risposte a questi bisogni nuovi.
Siamo tutti impegnati in questa ricostruzione.
Dobbiamo indicare obiettivi più ambiziosi, di ridare nuovi stimoli e nuove sicurezze alle generazioni future.
Offrire ai giovani le condizioni necessarie per il loro sviluppo umano: questo è un concetto più ampio della semplice crescita del Pil che deve guidare tutta la nostra idea di sviluppo.
Ciò significa garantire ai nostri giovani migliori condizioni di istruzione, di lavoro, di reddito e di autonomia, più certezze e opportunità: condizioni pari a quelle di cui godono i loro coetanei europei.

DI COSA ABBIAMO BISOGNO

Provo a declinare alcuni punti di possibile agglutinazione di politiche idonee a dare risposte nuove a bisogni nuovi.
Anzitutto una formazione meglio corrispondente alle esigenze del mondo del lavoro, di durata ragionevole, che non ritardi l’entrata al lavoro, integrata da forme di combinazione scuola/lavoro. Poi una sprovincializzazione dei giovani, realizzata col sostegno della mobilità intenzionale degli studenti (Erasmus e simili), anche al fine di riparare a un deficit di capacità linguistiche, che diventerà sempre più penalizzante in un mondo globale. In terzo luogo un mercato degli alloggi più fluido, con affitti accessibili che favorisca la mobilità dei giovani e la loro uscita dalla famiglia. Inoltre un miglior accesso al credito, che penalizza chi non è in grado di offrire garanzie all’erogazione di prestiti e mutui. Servono minori vincoli all’accesso alle professioni e alle attività imprenditoriali. E una lotta alla precarietà che tuteli il lavoro a tempo alla pari con l’inserimento lavorativo stabile.
Nell’immediato si potrebbe limitare la possibilità di reiterazione dei contratti a termine, come indicato nel Protocollo fra governo e sindacati del 23 luglio 2007. In prospettiva va considerata l’opportunità di istituire un unico contratto a tempo indeterminato, con tutele crescenti nel tempo. Introdurre il contratto unico significherebbe abbattere il muro che divide gli italiani a tempo determinato da quelli a tempo indeterminato.
Come Regione Campania abbiamo cominciato a farlo. Introducendo il credito d’imposta per l’occupazione tra gli strumenti di agevolazione per le imprese della nuova legge regionale di riforma degli incentivi: un credito d’imposta che si raddoppia per le imprese che trasformano un contratto a termine, dopo un primo anno, in uno a tempo indeterminato.
Ma abbiamo intenzione di pensare a strumenti specifici per i giovani: in particolare contratti di inserimento non corti e fittizi, come spesso avviene, ma di lunga durata (4-5 anni) arricchiti di formazione, di tutoraggio e con l’impegno alle aziende all’inserimento lavorativo.

E spingere per il sostegno ai percorsi pensionistici, generalizzando le misure avviate dal governo e dal protocollo del 23 luglio 2007 su contributi figurativi per i periodi di non lavoro e riscatto dei periodi di laurea.


INVESTIRE SUI BAMBINI
L’investimento nelle nuove generazioni comincia dal sostegno ai bambini. Perché è nella prima infanzia che si formano le capacità essenziali per cogliere le opportunità della vita adulta.
Il nostro paese deve correggere gravi carenze su questi punti e nel welfare familiare, per la scarsità dei sostegni al reddito e dei servizi all’infanzia.
In tal senso vanno prese sul serio le indicazioni emerse dalla recente conferenza nazionale sulla famiglia.
Occorre potenziare sia i trasferimenti economici sia i servizi alla famiglia.
E vanno raccolte le proposte avanzate in Parlamento, ma bisognose di sostegno finanziario e politico, che prevedono sostegni economici ai bambini e alle famiglie povere e un fondo finanziato da fondi pubblici e privati diretto a favorire l’entrata dei giovani nella vita attiva.
Ma anche da questo punto di vista le Regioni possono fare molto. L’ente campano ha fatto la sua parte con la delibera di Giunta 2300 del 2008 , che ha definito le modalità per la concessione ai Comuni dei contributi per la costruzione e gestione degli asili nido e dei micro nidi nei luoghi di lavoro.

L’ORIZZONTE DELLA CRESCITA

Dobbiamo assumere come obiettivo fondamentale della nostra regione il rilancio della crescita.
Senza crescita stabile e con una società immobile tutti i progetti e tutte le opportunità per i giovani sono a rischio.
L’equilibrio di un nuovo patto generazionale non si regge senza una piena e buona occupazione, che vuol dire occupazione non precaria e con pienezza di diritti.
Solo se si mobilitano tutte le risorse umane con lavori di qualità la regione può svilupparsi e sostenere un welfare all’altezza dei bisogni.
Su questo stiamo lavorando molto.
Stiamo lavorando per allargare la base produttiva della Campania e renderla adeguata alla sua base demografica.
Lo stiamo facendo con la riforma per gli incentivi, il Paser, i siti delle opportunità, il grande impegno della Regione su infrastrutture e logistica.
La flessibilità è fisiologica nel mondo attuale e certo non riguarda solo il lavoro.
Ma va regolata e tutelata, perché non diventi precarietà.
Questa è la nostra politica, questo è ciò che ci distingue dai governi di centrodestra..
Al di là delle singole norme della legge Biagi, il centrodestra ha propagandato l’idea sbagliata che basti moltiplicare le forme di lavoro flessibile, per migliorare l’occupazione.
Ha depotenziato la contrattazione collettiva e i controlli, non ha introdotto gli ammortizzatori sociali necessari a sostenere la flessibilità e a dare sicurezza.
Sono questi i punti che vanno corretti.
La lotta alla precarietà richiede controlli e sanzioni, ma non può esaurirsi nei divieti.
La precarietà si combatte anche e soprattutto con misure positive, di tutela e valorizzazione del lavoro.
Vanno promosse politiche attive dirette ad accrescere le opportunità di lavoro, specie nei gruppi ancora sottorappresentati, a cominciare dalle donne.
Il rafforzamento della nostra produttività e dell’occupazione dipende dalla partecipazione delle donne.
Alle donne devono essere offerte le medesime opportunità di scegliere e di esprimersi nel lavoro che hanno le donne europee, conciliando queste scelte con quelle della vita personale e familiare, a cominciare dalla scelta della genitorialità.

Anche qui possiamo provare a declinare una serie di provvedimenti utili.

• Politiche di welfare: un assegno universale di cura dei figli; servizi all’infanzia accessibili nei costi e negli orari; servizi per le attività domestiche e di assistenza: per evitare che il lavoro di cura pesi solo sulle donne;
• Politiche fiscali di sostegno: credito di imposta per le donne lavoratrici, a copertura delle spese per i figli a carico; agevolazioni alle imprese che assumono donne in aree sottosviluppate;
• Politiche attive del lavoro che promuovano flessibilità dell’orario di lavoro family friendly e sostegno al part time;
congedi fruibili da entrambi i genitori e adeguatamente retribuiti (in Svezia ricevono il 66% del salario normale)

UNA NUOVA CULTURA D’IMPRESA
Infine, la grande battaglia culturale si gioca nel rapporto tra impese e territorio. Il lavoro non si migliora se non migliora l’impresa. Il lavoro precario è spesso prodotto da imprese precarie, poco competitive e poco lungimiranti.
Per questo noi crediamo che le politiche del lavoro debbano essere combinate con politiche economiche che favoriscano uno sviluppo delle imprese basato sull’innovazione e sulla qualità, che disincentivi i comportamenti socialmente irresponsabili.
Va rimesso all’ordine del giorno il tema della partecipazione dei lavoratori nell’impresa e della democrazia economica.
I nuovi caratteri dell’impresa flessibile spingono verso la ricerca di qualità e un accresciuto patrimonio di conoscenza e di autonomia dei lavoratori: queste costituiscono condizioni potenzialmente favorevoli al coinvolgimento diretto dei lavoratori nell’impresa.
Anche l’evoluzione più avanzata dell’impresa moderna spinge a porre in primo piano la conoscenza, la qualità, le risorse umane, il capitale umano. Più si alza il tasso di contenuto tecnologico e di complessità dei processi di produzione, più gli uomini tornano al centro della vita delle aziende.

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