I diritti dei bambini, i desideri dei genitori. Relazione di ENRICO QUADRI Ordinario di Diritto privato e di Diritto di famiglia Università di Napoli
ENRICO QUADRI
Ordinario di Diritto privato e di Diritto di famiglia (Università di Napoli “Federico II”)
Il titolo dell’incontro odierno (“I diritti dei bambini, i desideri dei genitori”) si trova in perfetta sintonia con quanto affermato circa due settimane fa dalla Conferenza dei Vescovi Italiani, i quali hanno appunto sottolineato come i figli non sono da considerarsi “cose da mettere al mondo per gratificare i desideri dei genitori, ma persone da incoraggiare a diventare autonome a loro volta, educate alla libertà e alla responsabilità”.
Fortunatamente i “desideri” dei genitori e i “diritti” di chi viene al mondo di regola non si contrappongono. Non si può nascondere, peraltro, come non sempre il desiderio di genitorialità si manifesti quale espressione di reale disponibilità all’accoglienza, presentandosi, piuttosto, come ricerca di una gratificazione personale, che, forse comprensibile sul piano umano, non sembra poter essere assecondata né sul piano etico, né su quello giuridico.
Se pure si voglia intendere la “genitorialità” come oggetto di un “diritto”, in quanto manifestazione della personalità di chi ad essa aspira, è da tenere sempre ben presente che tale diritto deve essere preso in considerazione e, eventualmente, tutelato dalla legge solo bilanciandolo con l’aspettativa del generato a venire adeguatamente accolto. È sulla posizione di chi viene chiamato a percorrere le vie dell’esistenza, cioè, che deve essere concentrata l’attenzione: è l’interesse del bambino che deve ritenersi sovraordinato ad ogni altro e sono i suoi “diritti” che devono essere attuati in via prioritaria da parte dell’ordinamento.
Ma questo ci può sembrare, oggi, quasi scontato rappresenta il risultato di una lunga e faticosa evoluzione dei principi dell’ordinamento medesimo (e, prima che dei principi giuridici, degli stessi complessivi atteggiamenti della società). Evoluzione, invero, forse ancora non del tutto acquisita e stabilizzata, se le nuove tecniche che la scienza mette a disposizione sono utilizzate, attraverso discutibili interpretazioni della legislazione in materia, per assecondare “desideri” di adulti in palese contrasto con gli interessi di chi viene generato (e il riferimento è, chiaramente, a certe utilizzazioni delle tecniche di procreazione assistita di cui si sono, di recente, riempite le cronache, non certo in linea con gli obbiettivi avuti di mira dallo stesso legislatore con la L. n. 40 del 2004).
L’idea che è l’interesse del bambino a dover venire sempre privilegiato quando sia in gioco la sua accoglienza – da parte dei genitori del sangue o da parte di altri – non è così risalente nel tempo come si potrebbe credere. In effetti, solo in tempi relativamente recenti si è avuta con chiarezza, a livello nazionale e sovranazionale, l’affermazione per cui “in tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente” (secondo quanto risulta precisato dall’art. 3 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, del 20-11-1989, ratificata dall’Italia con la L. 27- 5-1991 n. 176)
Oggi, il nostro ordinamento – bisogna riconoscere anche contro certi atteggiamenti troppo pessimistici – si è venuto via via attrezzando, sul piano legislativo, per un adeguato riconoscimento del carattere “preminente” dell’interesse del minore. Del resto, con una certa malizia non si è mancato addirittura di osservare che la disciplina del diritto di famiglia tende a diventare, da qualche tempo, sempre più “paidocentrica”. Né sembra dover scoraggiare l’impressione, talvolta, dell’aggravamento, nonostante i recenti interventi e gli sforzi profusi, dei problemi su cui la legislazione in materia dovrebbe incidere. Una simile impressione, in realtà, risulta, almeno in parte, dovuta all’essere state, proprio dalla legislazione più recente, rese le mura domestiche assai più “trasparenti”che in passato. E ciò rappresenta un indubbio progresso, almeno fin quando una simile trasparenza serva ad assicurare il rispetto della dignità e la tutela dei soggetti più deboli (si pensi al riguardo, alla legislazione – civile e penale – tendente a prevenire e a reprimere gli abusi nei confronti dei minori, quando essi si verifichino proprio in quell’ambiente familiare che dei minori dovrebbe, invece, promuovere lo sviluppo della personalità).
Sarebbe lungo percorrere le tappe dell’evoluzione legislativa in materia di tutela del minore. Basti ricordare che solo con la L. n. 431 del 1967 si è avuta quella che è stata definita, al riguardo, una “rivoluzione copernicana” e, per utilizzare le parole della Corte Costituzionale (sentenza 11/1981), il passaggio – per venire subito al settore in cui l’interesse del minore è destinato a confrontarsi con più crudezza con gli atteggiamenti degli adulti – quale “centro di gravità dall’adozione dall’interesse dell’adottante a quello dell’adottato”.
In effetti, se già nel codice civile del 1942 si era abbandonata la prospettiva più tradizionale e risalente nel tempo, secondo cui l’adozione fosse da riservare esclusivamente ai maggiorenni, come strumento per dare un continuatore ad una famiglia senza eredi (e, dunque, essenzialmente ad un patrimonio), l’istituto restava poco definito nei suoi contorni e, di conseguenza, inevitabilmente ambiguo. Solo, appunto, con la L. n. 431 e l’introduzione anche da noi – non a casa nello stesso lasso di tempo che negli altri paesi a noi più vicini e sulla base di un movimento etico-giuridico di carattere sovranazionale – della c.d. “adozione legittimante” dei minori si è avuta l’accennata “rivoluzione”.
Il mutamento di prospettiva in materia di affidamento e adozione è stato portato alle sue logiche conseguenze – logiche, ovviamente, se si guarda alla materia nell’ottica dell’assoluta preminenza dell’interesse del minore – con la L. n. 184 del 1983 e, poi, con la relativa profonda innovazione ulteriore con la L. n. 149 del 2001.
Con tale ultima legge si assiste, in effetti anche sul piano terminologico, al completamento dell’evoluzione iniziata con la legge del 1967. L’intitolazione stessa della legge abbandona il riferimento all’adozione e all’affidamento, cui era ancora intitolata la legge del 1983 (“Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori”), a favore di una formulazione in cui si allude al “Diritto del minore ad una famiglia”.
Sarebbe riduttivo limitare la portata dell’avvenuta modificazione di intitolazione ad una mera modificazione terminologica. Anche se non a tutti è risultato chiaro, si è inteso, in tal modo, per così dire, invertire l’angolo visuale sotto cui guardare alla vicenda del bambino in situazione di disagio familiare: “adozione” e “affidamento” corrono il rischio di evocare pur sempre l’idea del bambino come “oggetto” di rapporti da intrecciare tra gli adulti, anche se nel suo interesse. Con la nuova formulazione si chiarisce definitivamente che il protagonista “attivo” – se vogliamo il “soggetto” vero – della vicenda è, appunto, il bambino, la cui esigenza di contare su una famiglia, come ambiente elettivo di sviluppo della sua personalità, è la sola cui dare voce da parte del legislatore, nei casi estremi di inidoneità della propria famiglia a svolgere tale essenziale funzione. E ciò “attraverso” l’affidamento e l’adozione.
Rimedi, questi, che (in una significativa prospettiva di “sussidiarietà”) vengono posti a disposizione del minore privo, temporaneamente o definitivamente, di un ambiente familiare idoneo per il suo sviluppo, nella convinzione che anche i “diritti” dei genitori del sangue sono tutelati dell’ordinamento solo in vista dell’accoglienza – e non dei “desideri” e delle “pretese” – nei riguardi del generato. Come ha sottolineato la Corte Costituzionale (sempre nella sentenza 11/1981), con un linguaggio la cui durezza è da rapportare all’essenzialità degli interessi da proteggere, anche il “diritto dei genitori del sangue” ha “carattere funzionale e sta e viene meno in relazione alla capacità di assolvere i compiti previsti dal comma 1° dell’art. 30 Cost.” (in cui si evidenzia il “dovere”, prima che il “diritto”, con un ordine non certo casuale, “dei genitori” di “mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio”, prevedendosi, poi, che, “nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti”: 2° comma).
Pare opportuno sottolineare, comunque, come il pregio della L. n. 149 del 2001 sia anche da individuare nella maggiore consapevolezza e concretizzazione di quel principio dell’autonomia della famiglia, insito nella stessa definizione costituzionale della “famiglia” come “società naturale” (art. 29, comma 1°, Cost.): principio, questo, che costituisce vero e proprio valore fondante di un ordinamento che su di esso intenda costruire pluralismo e democrazia. Ed è proprio il programmatico rispetto di un simile valore di autonomia della famiglia a rendere inevitabilmente prioritario, con riguardo alla promozione della posizione del minore, l’intervento di sostegno alla sua famiglia di origine, onde consentire, appunto, il pieno recupero della relativa funzionalità ad assicurare, in un clima di solidarietà, idonee condizioni di sviluppo dei figli. Lo stesso intervento, in senso lato, “sostitutivo”, nell’accennata prospettiva, non può che essere, a sua volta, opportunamente graduato, in modo tale, cioè, da fare del distacco definitivo del minore dalla propria famiglia di origine un rimedio realmente estremo, in quanto implicante, a ben vedere, il riconoscimento di una sconfitta per la società intera nella sua doverosa azione di sostegno alla famiglia.
Proprio il “diritto del minore ad una famiglia”, coerentemente affermato testualmente in materia di adozione di ed affidamento, costituisce, a ben vedere, anche la chiave di lettura dell’evoluzione della disciplina dell’affidamento in caso di crisi della famiglia come operante comunità di vita.
Pure qui si è avuto un lento cammino, che muove, nel tradizionale sistema dell’affidamento monogenitoriale, da un esercizio della “potestà” da parte dell’affidatario come espressione di una sorta di privilegio riconosciuto all’affidatario stesso sul figlio. Privilegio, cui faceva da contrappunto il c.d. “diritto di visita” dell’altro genitore, guardato pur sempre come pretesa ad affermare e a vedere riconosciuto il proprio “diritto” alla genitorialità.
E’ solo quando penetra nell’ordinamento – e si sono visti i tempi – l’idea dell’assoluta preminenza, anzi dell’esclusiva rilevanza, dell’interesse del minore in ogni caso in cui sia in gioco la sua esigenza assistenziale ed affettiva che anche con riguardo alle conseguenze della crisi familiare si giunge, in giurisprudenza, alla chiara affermazione, secondo la quale i figli “non possono mai essere considerati alla stregua di cose oggetto dei diritti dei genitori” (Cassazione, sentenza 3776/1983).
Il completamento del percorso è recente ed il punto di arrivo può sintetizzarsi, con la L. n. 54 del 2006 (intitolata all’“affidamento condiviso”), nell’idea che la crisi familiare non deve privare il minore – ma anche il maggiorenne non economicamente autonomo (con adeguata attenzione alla realtà della situazione attuale dei rapporti economico-sociali) – della possibilità di contare su una “famiglia” nella propria ulteriore crescita.
Si ha, cioè, pure con riguardo alle conseguenze della crisi familiare, il trionfo dell’idea della essenzialità della conservazione di un effettivo rapporto di vita con ambedue i genitori quale oggetto di un “diritto” del figlio. L’idea, insomma, che qualsiasi programma di reale tutela dell’interesse dei figli resta condizionato alla riuscita (faticosa, ma da ricercare con ogni sforzo), sulle ceneri della svanita “comunità coniugale”, di una “comunità parentale”, la quale veda il proprio momento di aggregazione nella figura del figlio, con le sue preminenti esigenze di sviluppo alla personalità.
Il giudizio sugli sviluppi recenti della nostra legislazione in materia può essere, insomma, complessivamente positivo dal punto di vista dell’affermazione dei “diritti” del minore e della centralità del suo interesse nei rapporti personali e familiari. Ma si tratta solo di un primo passo su di un cammino ancora lungo da percorrere: ulteriori decisivi passi attendono di essere mossi dal legislatore e dalle forze sociali onde, assicurare reale “effettività” ai “diritti” sin qui spesso esclusivamente “affermati”.
Da questo punto di vista il ritardo è notevole. Basti ricordare che la Convenzione di Strasburgo (significativamente intitolata “sull’esercizio dei diritti dei fanciulli”, dopo la precedente affermazione dei diritti stessi con la Convenzione di New York del 1989) è del 25 gennaio 1996, ma ha dovuto attendere il 20 marzo 2003 per essere ratificata e resa esecutiva con la L. n. 77 del 2003. E si è trattato, in larga misura, di una ratifica solo formale, dato che è mancato, da parte del legislatore, uno sforzo di adeguamento dell’intero sistema ai principi della Convenzione, tendente, appunto, a rendere “effettivo” l’esercizio dei diritti già dichiaratamente riconosciuti in precedenza ai minori (in particolare con riguardo alle procedure che li riguardano in sede giudiziaria e amministrativa).
Significative, in proposito, sono le difficoltà che ancora incontra, proprio per la carente organizzazione di mezzi adeguati a tal fine, il principio dell’ascolto del minore, cui pure s’intitola l’attuale art 155-sexies, quale introdotto dalla L. n. 54 del 2006.
Né si può dimenticare come l’attuazione della parte più viva della L. n. 149 del 2001 abbia finito con l’essere rinviata nel tempo, con proroghe susseguitesi a partire da quella, contestuale alla stessa legge, disposta col D.L. n. 150 del 2001. Il 30 giugno di quest’anno l’ultima proroga è scaduta, ma ciò è accaduto quasi nell’indifferenza di chi avrebbe dovuto predisporre gli opportuni strumenti operativi. Non vi sono stati, cioè, quegli interventi che – e forse non a torto – erano stati posti a base delle proroghe dell’attuazione del sistema della L. n. 149, indiscutibilmente maggiormente garantistico di tutti gli interessi coinvolti nella vicenda dell’adozione (e, in primo luogo, ovviamente, di quello del minore).
Del resto, anche la stessa legge n. 285 del 1997, finalizzata proprio alla “promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia e l’adolescenza”, non si può dire che abbia dato i risultati sperati, nella prospettiva accennata della “effettività” della realizzazione dei “diritti” dei fanciulli. L’impressione è che si sia finito col pensare di risolvere la questione con la creazione di commissioni e osservatori, invero ipertrofici – e, quindi, inevitabilmente destinati ad una scarsa operatività – come l’Osservatorio azionale per l’infanzia e l’adolescenza (organizzato col D.P.R. n. 369 del 1998; peraltro solo col D.P.R. n. 284 del 2004, con significativo ritardo, si è regolamentato il Centro nazionale di documentazione di analisi per l’infanzia).
Quale è la direzione su cui muovere i passi ulteriori per conferire reale “effettività” ai “diritti” dei fanciulli? Tale direzione non può che essere quella di dedicare adeguata attenzione alla famiglia, valorizzandone a fondo la funzione. Pare da evitare, cioè, qualsiasi concezione che veda quelli del bambino come “diritti”, per così dire, “nei confronti” della famiglia e dei suoi membri. I “diritti” del bambino, in effetti, sembrano poter trovare reale attuazione solo se concepiti come “diritti” da realizzare “attraverso” la famiglia, secondo quanto, peraltro, è già chiaramente indicato nella nostra Costituzione all’art. 31 e nella Convenzione di New York, nel cui preambolo si evidenzia, appunto, essere “la famiglia, unità fondamentale della società ed ambiente naturale per la crescita ed il benessere di tutti i suoi membri ed in particolare dei fanciulli”. E, proprio per questo, necessario punto di riferimento della protezione e dell’assistenza “di cui necessita per poter svolgere integralmente il suo ruolo nella collettività”.
Quando si riconosce che “il fanciullo, ai fini dello sviluppo armonioso e completo della sua personalità deve crescere in un ambiente familiare in un clima di felicità, di amore e di comprensione” (così ancora il preambolo ricordato), secondo una prospettiva che si è visto essere alla base anche della L. n. 149 del 2001, si riconosce con ciò stesso che la famiglia – sia essa quella del sangue o quella, eccezionalmente, di accoglienza – è destinata a costituire l’unico possibile “filtro” di ogni ipotizzabile intervento di valorizzazione dei “diritti” del fanciullo. In tale direzione si devono muovere gli sforzi del legislatore e di tutti gli enti che sono istituzionalmente preposti all’attuazione dei “diritti”dei bambini. E, allora, la stessa formulazione dell’art. 1 della L. n. 328 del 2000 (relativa al “sistema integrato di interventi e servizi sociali”) richiederebbe, forse, di essere rivista, laddove allude alla finalità di prevenire, eliminare o, almeno, ridurre le condizioni “di bisogno e di disagio individuale e familiare”: ponendo, cioè, al primo posto, con precedenza sull’“individuo”, la “famiglia”, quale destinataria elettiva delle attenzioni e degli interventi, nella consapevolezza che, se non si attiva adeguatamente la “famiglia”, perdendosi di vista la sua essenzialità per lo sviluppo della persona, il percorso dell’“individuo” è comunque destinato a restare incerto e privo di meta.
Il titolo dell’incontro odierno (“I diritti dei bambini, i desideri dei genitori”) si trova in perfetta sintonia con quanto affermato circa due settimane fa dalla Conferenza dei Vescovi Italiani, i quali hanno appunto sottolineato come i figli non sono da considerarsi “cose da mettere al mondo per gratificare i desideri dei genitori, ma persone da incoraggiare a diventare autonome a loro volta, educate alla libertà e alla responsabilità”.
Fortunatamente i “desideri” dei genitori e i “diritti” di chi viene al mondo di regola non si contrappongono. Non si può nascondere, peraltro, come non sempre il desiderio di genitorialità si manifesti quale espressione di reale disponibilità all’accoglienza, presentandosi, piuttosto, come ricerca di una gratificazione personale, che, forse comprensibile sul piano umano, non sembra poter essere assecondata né sul piano etico, né su quello giuridico.
Se pure si voglia intendere la “genitorialità” come oggetto di un “diritto”, in quanto manifestazione della personalità di chi ad essa aspira, è da tenere sempre ben presente che tale diritto deve essere preso in considerazione e, eventualmente, tutelato dalla legge solo bilanciandolo con l’aspettativa del generato a venire adeguatamente accolto. È sulla posizione di chi viene chiamato a percorrere le vie dell’esistenza, cioè, che deve essere concentrata l’attenzione: è l’interesse del bambino che deve ritenersi sovraordinato ad ogni altro e sono i suoi “diritti” che devono essere attuati in via prioritaria da parte dell’ordinamento.
Ma questo ci può sembrare, oggi, quasi scontato rappresenta il risultato di una lunga e faticosa evoluzione dei principi dell’ordinamento medesimo (e, prima che dei principi giuridici, degli stessi complessivi atteggiamenti della società). Evoluzione, invero, forse ancora non del tutto acquisita e stabilizzata, se le nuove tecniche che la scienza mette a disposizione sono utilizzate, attraverso discutibili interpretazioni della legislazione in materia, per assecondare “desideri” di adulti in palese contrasto con gli interessi di chi viene generato (e il riferimento è, chiaramente, a certe utilizzazioni delle tecniche di procreazione assistita di cui si sono, di recente, riempite le cronache, non certo in linea con gli obbiettivi avuti di mira dallo stesso legislatore con la L. n. 40 del 2004).
L’idea che è l’interesse del bambino a dover venire sempre privilegiato quando sia in gioco la sua accoglienza – da parte dei genitori del sangue o da parte di altri – non è così risalente nel tempo come si potrebbe credere. In effetti, solo in tempi relativamente recenti si è avuta con chiarezza, a livello nazionale e sovranazionale, l’affermazione per cui “in tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente” (secondo quanto risulta precisato dall’art. 3 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, del 20-11-1989, ratificata dall’Italia con la L. 27- 5-1991 n. 176)
Oggi, il nostro ordinamento – bisogna riconoscere anche contro certi atteggiamenti troppo pessimistici – si è venuto via via attrezzando, sul piano legislativo, per un adeguato riconoscimento del carattere “preminente” dell’interesse del minore. Del resto, con una certa malizia non si è mancato addirittura di osservare che la disciplina del diritto di famiglia tende a diventare, da qualche tempo, sempre più “paidocentrica”. Né sembra dover scoraggiare l’impressione, talvolta, dell’aggravamento, nonostante i recenti interventi e gli sforzi profusi, dei problemi su cui la legislazione in materia dovrebbe incidere. Una simile impressione, in realtà, risulta, almeno in parte, dovuta all’essere state, proprio dalla legislazione più recente, rese le mura domestiche assai più “trasparenti”che in passato. E ciò rappresenta un indubbio progresso, almeno fin quando una simile trasparenza serva ad assicurare il rispetto della dignità e la tutela dei soggetti più deboli (si pensi al riguardo, alla legislazione – civile e penale – tendente a prevenire e a reprimere gli abusi nei confronti dei minori, quando essi si verifichino proprio in quell’ambiente familiare che dei minori dovrebbe, invece, promuovere lo sviluppo della personalità).
Sarebbe lungo percorrere le tappe dell’evoluzione legislativa in materia di tutela del minore. Basti ricordare che solo con la L. n. 431 del 1967 si è avuta quella che è stata definita, al riguardo, una “rivoluzione copernicana” e, per utilizzare le parole della Corte Costituzionale (sentenza 11/1981), il passaggio – per venire subito al settore in cui l’interesse del minore è destinato a confrontarsi con più crudezza con gli atteggiamenti degli adulti – quale “centro di gravità dall’adozione dall’interesse dell’adottante a quello dell’adottato”.
In effetti, se già nel codice civile del 1942 si era abbandonata la prospettiva più tradizionale e risalente nel tempo, secondo cui l’adozione fosse da riservare esclusivamente ai maggiorenni, come strumento per dare un continuatore ad una famiglia senza eredi (e, dunque, essenzialmente ad un patrimonio), l’istituto restava poco definito nei suoi contorni e, di conseguenza, inevitabilmente ambiguo. Solo, appunto, con la L. n. 431 e l’introduzione anche da noi – non a casa nello stesso lasso di tempo che negli altri paesi a noi più vicini e sulla base di un movimento etico-giuridico di carattere sovranazionale – della c.d. “adozione legittimante” dei minori si è avuta l’accennata “rivoluzione”.
Il mutamento di prospettiva in materia di affidamento e adozione è stato portato alle sue logiche conseguenze – logiche, ovviamente, se si guarda alla materia nell’ottica dell’assoluta preminenza dell’interesse del minore – con la L. n. 184 del 1983 e, poi, con la relativa profonda innovazione ulteriore con la L. n. 149 del 2001.
Con tale ultima legge si assiste, in effetti anche sul piano terminologico, al completamento dell’evoluzione iniziata con la legge del 1967. L’intitolazione stessa della legge abbandona il riferimento all’adozione e all’affidamento, cui era ancora intitolata la legge del 1983 (“Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori”), a favore di una formulazione in cui si allude al “Diritto del minore ad una famiglia”.
Sarebbe riduttivo limitare la portata dell’avvenuta modificazione di intitolazione ad una mera modificazione terminologica. Anche se non a tutti è risultato chiaro, si è inteso, in tal modo, per così dire, invertire l’angolo visuale sotto cui guardare alla vicenda del bambino in situazione di disagio familiare: “adozione” e “affidamento” corrono il rischio di evocare pur sempre l’idea del bambino come “oggetto” di rapporti da intrecciare tra gli adulti, anche se nel suo interesse. Con la nuova formulazione si chiarisce definitivamente che il protagonista “attivo” – se vogliamo il “soggetto” vero – della vicenda è, appunto, il bambino, la cui esigenza di contare su una famiglia, come ambiente elettivo di sviluppo della sua personalità, è la sola cui dare voce da parte del legislatore, nei casi estremi di inidoneità della propria famiglia a svolgere tale essenziale funzione. E ciò “attraverso” l’affidamento e l’adozione.
Rimedi, questi, che (in una significativa prospettiva di “sussidiarietà”) vengono posti a disposizione del minore privo, temporaneamente o definitivamente, di un ambiente familiare idoneo per il suo sviluppo, nella convinzione che anche i “diritti” dei genitori del sangue sono tutelati dell’ordinamento solo in vista dell’accoglienza – e non dei “desideri” e delle “pretese” – nei riguardi del generato. Come ha sottolineato la Corte Costituzionale (sempre nella sentenza 11/1981), con un linguaggio la cui durezza è da rapportare all’essenzialità degli interessi da proteggere, anche il “diritto dei genitori del sangue” ha “carattere funzionale e sta e viene meno in relazione alla capacità di assolvere i compiti previsti dal comma 1° dell’art. 30 Cost.” (in cui si evidenzia il “dovere”, prima che il “diritto”, con un ordine non certo casuale, “dei genitori” di “mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio”, prevedendosi, poi, che, “nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti”: 2° comma).
Pare opportuno sottolineare, comunque, come il pregio della L. n. 149 del 2001 sia anche da individuare nella maggiore consapevolezza e concretizzazione di quel principio dell’autonomia della famiglia, insito nella stessa definizione costituzionale della “famiglia” come “società naturale” (art. 29, comma 1°, Cost.): principio, questo, che costituisce vero e proprio valore fondante di un ordinamento che su di esso intenda costruire pluralismo e democrazia. Ed è proprio il programmatico rispetto di un simile valore di autonomia della famiglia a rendere inevitabilmente prioritario, con riguardo alla promozione della posizione del minore, l’intervento di sostegno alla sua famiglia di origine, onde consentire, appunto, il pieno recupero della relativa funzionalità ad assicurare, in un clima di solidarietà, idonee condizioni di sviluppo dei figli. Lo stesso intervento, in senso lato, “sostitutivo”, nell’accennata prospettiva, non può che essere, a sua volta, opportunamente graduato, in modo tale, cioè, da fare del distacco definitivo del minore dalla propria famiglia di origine un rimedio realmente estremo, in quanto implicante, a ben vedere, il riconoscimento di una sconfitta per la società intera nella sua doverosa azione di sostegno alla famiglia.
Proprio il “diritto del minore ad una famiglia”, coerentemente affermato testualmente in materia di adozione di ed affidamento, costituisce, a ben vedere, anche la chiave di lettura dell’evoluzione della disciplina dell’affidamento in caso di crisi della famiglia come operante comunità di vita.
Pure qui si è avuto un lento cammino, che muove, nel tradizionale sistema dell’affidamento monogenitoriale, da un esercizio della “potestà” da parte dell’affidatario come espressione di una sorta di privilegio riconosciuto all’affidatario stesso sul figlio. Privilegio, cui faceva da contrappunto il c.d. “diritto di visita” dell’altro genitore, guardato pur sempre come pretesa ad affermare e a vedere riconosciuto il proprio “diritto” alla genitorialità.
E’ solo quando penetra nell’ordinamento – e si sono visti i tempi – l’idea dell’assoluta preminenza, anzi dell’esclusiva rilevanza, dell’interesse del minore in ogni caso in cui sia in gioco la sua esigenza assistenziale ed affettiva che anche con riguardo alle conseguenze della crisi familiare si giunge, in giurisprudenza, alla chiara affermazione, secondo la quale i figli “non possono mai essere considerati alla stregua di cose oggetto dei diritti dei genitori” (Cassazione, sentenza 3776/1983).
Il completamento del percorso è recente ed il punto di arrivo può sintetizzarsi, con la L. n. 54 del 2006 (intitolata all’“affidamento condiviso”), nell’idea che la crisi familiare non deve privare il minore – ma anche il maggiorenne non economicamente autonomo (con adeguata attenzione alla realtà della situazione attuale dei rapporti economico-sociali) – della possibilità di contare su una “famiglia” nella propria ulteriore crescita.
Si ha, cioè, pure con riguardo alle conseguenze della crisi familiare, il trionfo dell’idea della essenzialità della conservazione di un effettivo rapporto di vita con ambedue i genitori quale oggetto di un “diritto” del figlio. L’idea, insomma, che qualsiasi programma di reale tutela dell’interesse dei figli resta condizionato alla riuscita (faticosa, ma da ricercare con ogni sforzo), sulle ceneri della svanita “comunità coniugale”, di una “comunità parentale”, la quale veda il proprio momento di aggregazione nella figura del figlio, con le sue preminenti esigenze di sviluppo alla personalità.
Il giudizio sugli sviluppi recenti della nostra legislazione in materia può essere, insomma, complessivamente positivo dal punto di vista dell’affermazione dei “diritti” del minore e della centralità del suo interesse nei rapporti personali e familiari. Ma si tratta solo di un primo passo su di un cammino ancora lungo da percorrere: ulteriori decisivi passi attendono di essere mossi dal legislatore e dalle forze sociali onde, assicurare reale “effettività” ai “diritti” sin qui spesso esclusivamente “affermati”.
Da questo punto di vista il ritardo è notevole. Basti ricordare che la Convenzione di Strasburgo (significativamente intitolata “sull’esercizio dei diritti dei fanciulli”, dopo la precedente affermazione dei diritti stessi con la Convenzione di New York del 1989) è del 25 gennaio 1996, ma ha dovuto attendere il 20 marzo 2003 per essere ratificata e resa esecutiva con la L. n. 77 del 2003. E si è trattato, in larga misura, di una ratifica solo formale, dato che è mancato, da parte del legislatore, uno sforzo di adeguamento dell’intero sistema ai principi della Convenzione, tendente, appunto, a rendere “effettivo” l’esercizio dei diritti già dichiaratamente riconosciuti in precedenza ai minori (in particolare con riguardo alle procedure che li riguardano in sede giudiziaria e amministrativa).
Significative, in proposito, sono le difficoltà che ancora incontra, proprio per la carente organizzazione di mezzi adeguati a tal fine, il principio dell’ascolto del minore, cui pure s’intitola l’attuale art 155-sexies, quale introdotto dalla L. n. 54 del 2006.
Né si può dimenticare come l’attuazione della parte più viva della L. n. 149 del 2001 abbia finito con l’essere rinviata nel tempo, con proroghe susseguitesi a partire da quella, contestuale alla stessa legge, disposta col D.L. n. 150 del 2001. Il 30 giugno di quest’anno l’ultima proroga è scaduta, ma ciò è accaduto quasi nell’indifferenza di chi avrebbe dovuto predisporre gli opportuni strumenti operativi. Non vi sono stati, cioè, quegli interventi che – e forse non a torto – erano stati posti a base delle proroghe dell’attuazione del sistema della L. n. 149, indiscutibilmente maggiormente garantistico di tutti gli interessi coinvolti nella vicenda dell’adozione (e, in primo luogo, ovviamente, di quello del minore).
Del resto, anche la stessa legge n. 285 del 1997, finalizzata proprio alla “promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia e l’adolescenza”, non si può dire che abbia dato i risultati sperati, nella prospettiva accennata della “effettività” della realizzazione dei “diritti” dei fanciulli. L’impressione è che si sia finito col pensare di risolvere la questione con la creazione di commissioni e osservatori, invero ipertrofici – e, quindi, inevitabilmente destinati ad una scarsa operatività – come l’Osservatorio azionale per l’infanzia e l’adolescenza (organizzato col D.P.R. n. 369 del 1998; peraltro solo col D.P.R. n. 284 del 2004, con significativo ritardo, si è regolamentato il Centro nazionale di documentazione di analisi per l’infanzia).
Quale è la direzione su cui muovere i passi ulteriori per conferire reale “effettività” ai “diritti” dei fanciulli? Tale direzione non può che essere quella di dedicare adeguata attenzione alla famiglia, valorizzandone a fondo la funzione. Pare da evitare, cioè, qualsiasi concezione che veda quelli del bambino come “diritti”, per così dire, “nei confronti” della famiglia e dei suoi membri. I “diritti” del bambino, in effetti, sembrano poter trovare reale attuazione solo se concepiti come “diritti” da realizzare “attraverso” la famiglia, secondo quanto, peraltro, è già chiaramente indicato nella nostra Costituzione all’art. 31 e nella Convenzione di New York, nel cui preambolo si evidenzia, appunto, essere “la famiglia, unità fondamentale della società ed ambiente naturale per la crescita ed il benessere di tutti i suoi membri ed in particolare dei fanciulli”. E, proprio per questo, necessario punto di riferimento della protezione e dell’assistenza “di cui necessita per poter svolgere integralmente il suo ruolo nella collettività”.
Quando si riconosce che “il fanciullo, ai fini dello sviluppo armonioso e completo della sua personalità deve crescere in un ambiente familiare in un clima di felicità, di amore e di comprensione” (così ancora il preambolo ricordato), secondo una prospettiva che si è visto essere alla base anche della L. n. 149 del 2001, si riconosce con ciò stesso che la famiglia – sia essa quella del sangue o quella, eccezionalmente, di accoglienza – è destinata a costituire l’unico possibile “filtro” di ogni ipotizzabile intervento di valorizzazione dei “diritti” del fanciullo. In tale direzione si devono muovere gli sforzi del legislatore e di tutti gli enti che sono istituzionalmente preposti all’attuazione dei “diritti”dei bambini. E, allora, la stessa formulazione dell’art. 1 della L. n. 328 del 2000 (relativa al “sistema integrato di interventi e servizi sociali”) richiederebbe, forse, di essere rivista, laddove allude alla finalità di prevenire, eliminare o, almeno, ridurre le condizioni “di bisogno e di disagio individuale e familiare”: ponendo, cioè, al primo posto, con precedenza sull’“individuo”, la “famiglia”, quale destinataria elettiva delle attenzioni e degli interventi, nella consapevolezza che, se non si attiva adeguatamente la “famiglia”, perdendosi di vista la sua essenzialità per lo sviluppo della persona, il percorso dell’“individuo” è comunque destinato a restare incerto e privo di meta.
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